amnesty contro le spose bambine

Amnesty contro le spose bambine

amnesty contro le spose bambine

Amnesty International Italia lancia la nuova campagna contro le spose bambine per protestare contro i matrimoni precoci e forzati a cui sono obbligate le giovanissime donne, negando loro l’infanzia, in molti paesi del mondo.

Ogni anno, secondo una stima del Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione, sono 13 milioni e mezzo le ragazze costrette a prendere marito prima dei 18 anni. Gli uomini sono sempre molto più vecchi di loro. A 37.000 bambine al giorno – un dato spaventoso – viene negato il diritto ad essere tali, divenendo spose e spesso madri loro malgrado.

Per dire basta e proteggere le bambine dai matrimoni forzati e dalla violenza che ne deriva, Amnesty ha lanciato una campagna di sensibilizzazione e raccolta fondi partita il 18 Ottobre e attiva fino al prossimo 1 Novembre.

Il margine di intervento in questi caso è molto limitato, perché le bambine vengono isolate e perdono ogni libertà, allontanate come sono da famiglia, amici e qualunque sostegno sociale (in molti casi del tutto inesistente) e dunque soggette ad ogni genere di violenza e abusi. Molte di loro restano incinte e partoriscono quando sono ancora soltanto bambine.

Tra i personaggi pubblici che sostengono la campagna ci sono Antonella Elia, Chiara Galiazzo, Giovanna Gra, Dacia Maraini, Simona Marchini, Veronica Pivetti, Marina Rei e Sveva Sagramola. Attraverso testimonial importanti e un impegno che deve essere di tutti si tenta di portare alla luce un problema che ha forti radici nella povertà e nell’arretratezza culturale, da cui è difficile emanciparsi. Accrescendo l’attenzione del mondo sul problema, si tenterà quindi di richiamare anche l’attenzione dei governi dei paesi in cui la pratica è comunemente accettata affinché vengano prese le idonee misure per eliminarla.

Il Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite è attivo dal Luglio scorso in questa battaglia per l’eliminazione dei matrimoni precoci e forzati e ha emamanto una Risoluzione che invita i governi e le società a monitorare e impedire questo fenomeno. Ma non è sufficiente e basta sentire le storie delle ragazze costrette a sposarsi da bambine per capire che c’è ancora molta strada da percorrere.

In moltissimi casi le donne intervistate, in ogni angolo del mondo dove la pratica del matrimonio precoce è diffusa, hanno dichiarato di essere state contrarie alle nozze e di aver subito violenza e abusi da parte degli uomini che le considerano una proprietà, che si tratti dei loro padri o dei loro mariti. Le famiglie accettano queste pratiche e si rifiutano di fornire aiuto alle figlie, che non di rado vengono letteralmente vendute al marito.

In Yemen vengono concesse in sposa bambine di appena 8 anni. Le ragazzine siriane rifugiate in Giordania vengono spesso date in sposa a giordani che visitano il campo rifugiati di Zaatari in cerca di bambine da sposare.

Anche in Iran le donne sono puntualmente vittime di abusi perché considerate subalterne rispetto agli uomini in materia di matrimonio, divorzio e custodia dei figli. L’età legale per il matrimonio è di 13 anni ma possono essere concesse in sposa anche a età inferiori, se il tribunale concede un permesso, cosa che accade spesso. Anche in Burkina Faso la situazione è simile, le ragazze si sposano a 11 anni con uomini che hanno da 30 a 50 anni più di loro.

E se il Mahgreb sta via via facendo qualche passo avanti in questo senso, non è così nelle zone meridionali dell’Asia dove il 46% delle ragazze è costretto sposarsi prima dei 18 anni. Il Bangladesh è il paese che, secondo l’Unicef, ha il più alto tasso di matrimoni di bambine sotto i 15 anni. In Afghanistan, addirittura, dati del 2004 hanno rivelato che il 57% delle donne intervistate si era sposata prima dei 16 anni e in qualche caso a 9 anni.

Photo | Thinkstock

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voglio una ruota

Voglio una ruota, un documentario sulle donne in bicicletta

voglio una ruota

Voglio una ruota lancia una campagna di crowdfunding per realizzare un documentario sulle donne e la bicicletta, su come questi due mondi si sono incontrati e amati, si sono cambiati e a vicenda e hanno modificato la percezione delle donne, della loro libertà, della loro forza. Nonostante ciò, ancora oggi in molti paesi per le donne è disdicevole inforcare una bici e nel mondo dell’agonismo le cicliste sono classificate come dilettanti.

Cos’è Voglio una ruota

Per raccontare una lunga storia di confronto e incontro, e per cambiare un po’ anche il futuro, la squadra di Voglio una ruota ha deciso di investire sulla partecipazione delle persone che credono nel valore della bicicletta, come mezzo di trasporto ma anche come strumento di emancipazione e libertà.

Lo scelta del crowdfunding è la voglia di riuscire a rimanere un progetto indipendente. C’è tempo fino al 16 Novembre per raggiungere l’obiettivo e realizzare il documentario sulle donne in bicicletta che avrà tecnica mista, con animazioni e interventi delle donne che oggi stanno cambiando il mondo del ciclismo al femminile.

“Non regalatemi dei fiori, voglio una ruota”

Questo è lo slogan della campagna scelto da Antonella Bianco, la regista del documentario, insieme al suo team. È una storia d’amore quella che il film si propone di raccontare e che la campagna ha già iniziato a farci scoprire.

Una storia che inizia nell’Ottocento, quando la bicicletta fu inventata. Era un periodo di grandi progressi tecnologici e la bicicletta divenne subito un simbolo di libertà. Le donne all’inizio ebbero vita dura, non era facile pedalare con le grosse gonne dell’epoca e veniva considerato oltremodo sconveniente. L’emancipazione femminile aveva trovato il suo primo strumento di lotta.

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Una storia di donne

Questa storia, con le sue storie, vuole rendere giustizia alle donne cicliste che stanno lottando per cambiare questa percezione riduttiva della loro passione, per rivendicare il diritto a far girare le proprie ruote in completa libertà.

“Non bisogna andare troppo lontano per capire che la parità dei diritti è ben lontana persino in Occidente – dice Antonella Bianco – in cui il ciclismo femminile è visto come uno sport minore rispetto a quello maschile. In Italia, per esempio, non esiste una legge che riconosca le donne atlete come professioniste, con tutta la disparità economica e sociale che ne consegue. Ragazze che vincono medaglie d’oro in competizioni internazionali gareggiano come dilettanti.”

Le testimonianze

Nel documentario saranno presenti le testimonianze di molte donne che hanno fatto della bicicletta il fulcro della loro vita, diventando simbolo stesso del ciclismo al femminile oltre che di affrancamento da invisibili ma tenaci barriere culturali.

C’è la storia di Edita Pučinskaitė, unica donna ad aver vinto Giro d’Italia, Tour de France e Campionati del Mondo. C’è quella di Paola Gianotti, che ha compiuto il giro del mondo in bicicletta polverizzando il record precedente. E avete mai sentito parlare della storia delle ragazze egiziane del gruppo GoBike del Cairo? Ogni giorno sfidano i pregiudizi del loro paese che ritiene sia inappropriato per una donna andare in bicicletta.

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Eyerusalem Dino Keli

E poi c’è Eyerusalem, giovane e promettente ciclista etiope che contro il parere della famiglia ha tenacemente inseguito il suo sogno, ad appena 13 anni, prima fuggendo ad Addis Abeba e poi arrivando in Italia, dove oggi corre con la squadra Michela Fanini. Oggi ha 23 anni e la sua è una storia di riscatto.

“Abbiamo già iniziato le riprese – racconta il team di Voglio una ruota – e conoscere Eyerusalem e ascoltare la sua storia è stata un’esperienza intensa e coinvolgente. Man mano che andiamo avanti, si fanno nuovi incontri e si aprono mille strade nuove. Mi piacerebbe poter includere tutti nel progetto, la scelta è davvero difficile.”

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#polishedman

#polishedman: perché gli uomini si smaltano le unghie sui social

#polishedman

Negli ultimi giorni sui social media si assiste ad uno strano fenomeno che un hashtag contribuisce a spiegare: #polishedman è un movimento social che parte dagli uomini e gli uomini coinvolge in un battage che acquisisce forza dalla sua diffusione e ha lo scopo di sensibilizzare le persone sui temi della violenza sui bambini.

Su Twitter, Instagram, Facebook si vedono apparire uomini con le unghie smaltate che proprio per la bizzarria di queste immagini inattese attirano l’attenzione sul messaggio che vogliono comunicare. L’iniziativa si è sparsa rapidamente in tutto il mondo ma è partita da Elliot Costello, amministratore delegato di Ygap, un’organizzazione che si occupa di aiutare comunità disagiate ad affrancarsi dalla povertà.

La portata dei social media come sempre amplifica moltissimo la più piccola delle battaglie, sempre che il messaggio di fondo sia di valore. In questo caso lo è, per quanto venga proposto in un modo che non ci saremmo certo aspettate: gli smalti di solito sono nostro appannaggio quasi esclusivo e ci sorprende (ma positivamente) vedere come gli uomini abbiano scelto di utilizzarlo per attirare l’attenzione.

Secondo le stime, 1 bambina su 4 e 1 bambino su 5 sono vittime di violenza prima di raggiungere l’età di 19 anni, dice Costello in un’intervista ad Huffington Post, e continua:

“La maggior parte di queste violenze è commessa da uomini. È dunque importante che gli uomini si assumano la responsabilità di cambiare le cose.”

La campagna è partita il primo Ottobre e proseguierà fino al 15. Agli uomini che vogliono partecipare viene chiesto di smaltare un’unghia della loro mano e mostrarla sui social media, accompagnandola al messaggio. È stata lanciata anche una raccolta fondi da devolvere ad associazioni che si occupano di sostegno all’infanzia.

Ma da dove salta fuori l’idea di dipingersi le unghie? Da un’esperienza personale di Costello in Cambogia, dove si trovava per lavoro. Ha avuto occasione di parlare a lungo con una ragazza dalla storia difficile di nome Thea, maltrattata in orfanotrofio proprio dalle persone che dovevano proteggerla. Prima di congedarsi, la ragazza gli aveva smaltato un’unghia di blu e Costello se n’è servito come simbolo per la sua nuova battaglia.

Photo Credits | Twitter

Fiat, la lotta operaia contro le tute bianche

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Non esistono più tute blu nelle fabbriche della Fca. Da tempo sono state sostituite da quelle bianche, un cambio voluto dallo stessa dirigenza diversi anni fa.

Gli operai non hanno mai apprezzato la novità e le operaie ancor meno. A scatenare la battaglia sono state proprio le lavoratrice dello stabilimento Fiat di Melfi. Da giorni, infatti, nel sito lucano si discute sul problema delle tute che sembrano essere troppo bianche, motivo per cui molto spesso le donne si ritrovano i pantaloni macchiati di sangue durante il ciclo mestruale.

Come membro del coordinamento donne del sindacato ho ascoltato le lamentele delle mie colleghe e mi sono data da fare. In fabbrica accadono troppi episodi incresciosi del genere, in ogni reparto. Una situazione imbarazzante. Quando si verifica non sappiamo dove andare, visto che non possiamo tornare a casa. Abbiamo dieci minuti di tempo di pausa, ma non ce la facciamo mica ad andare in bagno tutte le volte, dove si accumula la coda delle colleghe, queste le parole di Pina Imbrenda, delegata Fiom nello stabilimento che ha iniziato a raccogliere le firme.

Circa cinquanta i casi simili raccolti dal sindacato nelle ultime settimane: lavoratrici costrette a rientrare in casa a causa della divisa macchiata, o altre colleghe rimaste chiuse in bagno con i pantaloni macchiati in condizioni di estremo disagio. Tutto questo è amplificato dalla posizione lavorativa “Noi facciamo i metalmeccanici, stiamo tutto il giorno in posizioni assurde – spiega l’operaia Pina dopo il turno di notte – perché lavoriamo dentro le macchine, facciamo un lavoro con il corpo piegato dentro le scocche. Diventa facile sporcarsi quando hai il ciclo mestruale. E così scatta un senso di umiliazione. Tutti in fabbrica lo vengono a sapere, qualcuno dei colleghi maschi fa anche il commento stupido tra le auto in fila. Tutto per colpa del pantalone chiaro. Per questo abbiamo deciso di agire cominciando a raccogliere firme per chiedere di cambiare il colore della divisa. Basta, non ce la facciamo più”.

La raccolta firme comprende attualmente la firma di circa 400 operaie (in azienda sono all’incirca 600 donne con contratto a tempo indeterminato su un totale di 8mila dipendenti) che hanno lasciato il loro numero identificativo aziendale, un segnale forte.

Le firme raccolte sono state spedite alla dirigenza dell’azienda Fca di Melfi che lo scorso venerdì ha affrontato il problema durante la commissione con tutte le sigle sindacali. La soluzione è arrivata ed è stata esposta in un comunicato della Fismic nella bacheca aziendale: “Da gennaio in arrivo una culotte da indossare sotto la tuta, per le donne alle prese con indisposizione mestruale”. Una scelta che non è stata condivisa dalle protagoniste di questa vicenda, che hanno paragonata la soluzione alla consegna di un pannolino.

Purtroppo la richiesta comporta una spesa rilevante, in quanto cambiare il colore della tuta comporterebbe adottare tale provvedimento per tutte le sedi dell’azienda. Ma i lavoratori si dicono convinti a risolvere la vicenda.

Su questa storia si sta cominciando a ricamare un po’ troppo. I lavoratori hanno visto questa richiesta delle loro colleghe come un modo per rivendicare una non dovuta esigenza di maggiore spazio. Quella tuta bianca è stata il frutto di una campagna di marketing, ma se l’azienda ascoltasse le esigenze delle sue dipendenti, penso che realizzerebbe una campagna comunicativa ancora più incisiva” – il commento di Roberta Laviano dalla segreteria regionale Uilm.

Foto | video melfi youtube

Svetlana Aleksievič, il premio Nobel per la Letteratura 2015

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Svetlana Aleksievic ha vinto il Premio Nobel per Letteratura 2015. Giornalista bielorussa che ha dedicato la sua vita al racconto dei principali avvenimenti dell’Unione Sovietica,  è stata costretta a lasciare il suo Paese perché accusata dal regime di Aleksandr Lukašenko di collaborare con la CIA.

Preghiera per CernobylRagazzi di zinco, Tempo di seconda mano. La vita in Russia dopo il crollo del comunismo sono i libri più importanti di Aleksievic pubblicati in Italia. La scrittrice era la favorita secondo le quote del sito inglese di scommesse Ladbrokes.

Nata nel 1948 in Ucraina da padre bielorusso e madre ucraina, Aleksievic  si è trasferita da piccola con la famiglia in Bielorussia. Dopo i primi lavori come giornalista in diversi giornali locali, ha collaborato come corrispondente per la rivista Neman a Minsk.Attraverso gli occhi della popolazione, ha raccontato gli eventi più drammatici avvenuti in Bielorussia dopo il secondo conflitto mondiale  e si è dedicata a molti fatti storici, più attuali. Perseguitata dal regime si è trasferita a Parigi. Dal 2011 vive nel suo Paese, ma non le è permesso pubblicare alcun testo.

Foto | Svetlana Aleksievic pagina facebook

i sogni finiscono

I sogni finiscono a 29 anni, dice la scienza

i sogni finiscono

Soglia ultima per sognare 29 anni: lo dice la scienza che ha decretato che i sogni finiscono a quell’età, quando si ha la percezione di essere entrati definitivamente nella fase adulta della propria vita ed è il momento di accantonare le fantasie e vivere la realtà concreta.

Sulle prime la notizia ci lascia incredule e stupefatte, com’è possibile che esista un’età limite entro cui abbandonare i propri sogni, dire addio ai propri desideri e semplicemente rassegnarsi? I sogni non si esauriscono mai, le fantasie nutrono la vita, ci fanno tendere sempre verso il miglioramento. È ancora così, non ci allarmiamo troppo.

È vero però che ad un certo punto, crescendo, avvertiamo sempre di più la pressione della società e delle sue convenzioni che ci trascina in molti casi verso scelte che non sempre corrispondono ai nostri veri desideri. Quante volte ci ritroviamo in una situazione che è stata più determinata dalle circostanze che davvero voluta?

Una ricerca firmata da Beagle Street Life Insurance ha messo nero su bianco questa realtà, che ci piaccia o no. Si tratta di una età media, s’intende, e di una percezione diffusa più che di una verità assoluta.

Sono state intervistate 2000 persone britanniche dai 18 anni in su a cui è stato chiesto non solo di definire quando hanno cominciato a sentirsi davvero adulti ma anche di spiegare perché. Il 64% degli intervistati ha detto che acquistare una casa è un chiaro segno dell’essere adulti. A seguire, tra le motivazioni più diffuse c’è avere un bambino, ma anche sposarsi o andare a vivere da soli. L’età media emersa da questa indagine è stata 29 anni.

Prima di sentirsi definitivamente adulti, prima di dover fronteggiare le difficoltà concrete della vita quotidiana e le proprie responsabilità, viviamo ancora una fase ricca di possibilità aperte, quando fantasticare sul seguito della nostra vita lascia spazio a qualunque speculazione. Una volta che si intraprendono i primi passi verso quello che viene percepito come “crescere” i sogni si restringono e fanno i conti con la quotidianità.

Photo Credits | BlueSkyImage / Shutterstock.com

anti-rape cloak abito anti stupro

Anti-Rape Cloak, l’abito anti-stupro

Anti-Rape Cloak

Il dibattito sulla donna oggetto, sulla sessualizzazione del corpo e sul messaggio che la comunicazione trasmette servendosene è più vivo che mai e l’ultima provocazione arriva dall’artista britannica Sarah Maple che ha presentato Anti-Rape Cloak, praticamente un abito anti-stupro.

Si tratta di un mantello nero, ampio e informe, con tanto di nome scritto a grandi lettere su fondo rosso proprio davanti. Lo scopo è quello di servirsi della satira per rispondere a chi ritiene che la scelta degli abiti da indossare possa avere una qualunque responsabilità sul terribile atto di violenza.

Sarah Maple non è nuova alle provocazioni, la sua produzione artistica ha spesso puntato ad accendere il dibattito intorno al corpo della donna e spiega con le sue stesse parole le intenzioni della nuova creazione:

“Mi ha sempre fatto molto arrabbiare l’idea che le donne vittime di stupro possano sentirsi in qualche modo responsabili per ciò che hanno deciso di indossare. Molte donne che conosco ci sono passate e non hanno mai denunciato, sono convinte che non sarebbero state credute. Leggendo Everyday Sexism di Laura Bates mi sono resa conto di quanto questo sentimento sia diffuso – a quante ragazze è stato detto che non sarebbe successo se non avessero indossato quella minigonna o se non avessero frequentato un certo posto.”

L’obiettivo dell’artista, fotogrando in giro per il mondo il suo Anti-Rape Cloak, è quello di incentivare il dibattito sull’eccesso di sessualizzazione delle donne e sull’idea della donna oggetto. E continua, dichiarando a Huffington Post:

“Raramente le donne vengono incoraggiate ad essere sexy. Dai media arriva continuamente un messaggio che punta sulla sessualità femminile ma se poi le donne si vestono in modo provocante, allora significa che se la cercano. È una contraddizione che mi fa infuriare. È ridicolo pensare che un po’ di carne esposta renda gli uomini animali senza controllo. È un’idea che svilisce sia gli uomini che le donne!”