senza tacchi ti licenzio

Senza tacchi ti licenzio, se ti trucchi ti pago di più

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Mentre i paesi arabi compiono piccolissimi ma costanti passi verso l’emancipazione, l’Occidente annaspa ancora nella più bieca discriminazione. Ha fatto scalpore la notizia di qualche giorno fa secondo cui una receptionist di un’azienda londinese è stata licenziata per aver rifiutato di presentarsi a lavoro sui tacchi alti. Ma non è l’unico episodio di cui vogliamo discutere.

La protagonista della storia che dà l’avvio alla nostra riflessione è Nicola Thorp, 27 anni e dipendente di una società finanziaria. La donna si è presentata al lavoro con le scarpe basse, vedendosi riprendere immediatamente per non aver aderito al rigido dress code richiesto.

Dress code sì, ma fino a dove arrivare prima che si trasformi in discriminazione? Secondo il Guardian la giovane impiegata era stata derisa quando aveva fatto presente di essere vittima di discriminazione per essere stata invitata a non ripresentarsi al lavoro senza tacchi a spillo. La legge inglese dà ragione all’azienda e alla ragazza non è rimasto che lanciare un appello sui social e una raccolta firme nel tentativo di attirare l’attenzione sul suo caso.

Fin qui la cronaca recente. Ma il quadro è ben più ampio di quanto non possa apparire da un singolo episodio e il verbo apparire cade proprio a proposito visto che di apparenza si tratta: secondo uno studio condotto dalle università di Chicago e della California, le donne che si truccano e si curano molto ricevono un salario più alto rispetto a chi si cura di meno. Con buona pace delle competenze.

La ricerca, realizzata a livello nazionale, ha coinvolto 14.000 persone intervistate su diverse questioni relative a lavoro, formazione e salario valutati sulla base della cura della propria persona, inclusi scelta dell’abbigliamento, pettinatura e make-up.

Il risultato conferma che le persone curate tendono a guadagnare il 20% in più rispetto a coloro che hanno un look più ordinario. Questa disparità risulta più evidente tra le donne che non tra gli uomini e si somma ad un gap salariale incolmabile tra uomini e donne a parità di ruolo: con amara ironia ci viene da pensare che siamo tutte troppo sciatte per guadagnare di più?

Photo Credits | Moustache Girl / Shutterstock.com

ItWasNeverADress

#ItWasNeverADress, il simbolo della donna non è un vestito

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I supereroi, si sa, al di fuori degli orari di servizio conducono una vita quotidiana del tutto normale si mimetizzano e si confondono con tutti noi. Il paragone non è poi così azzardato se parliamo di donne ,che spesso dei supereroi hanno la tempraperc se non la missione. Scoprire che il simbolo della donna non è mai stato un vestito ma un mantello da supereroe non ci può stupire più di tanto.

L’ironia è d’obbligo, naturalmente, e ci fa sorridere l’idea dell’azienda di software Axosoft che però ha uno scopo molto serio dietro la forma divertente. L’obiettivo è stimolare un dibattito sulla discriminazione di genere, soprattutto nel mondo del lavoro che riguarda i settori Steam, cioè scienza, tecnologia, ingegneria, arte e matematica.

Il punto di partenza è l’immagine femminile stilizzata e universalmente adottata come simbolo della donna. Ebbene, quello che sembrava un abito nasconde un segreto che finalmente è stato svelato, cioè un mantello da supereroe. La creativa Tania Katan racconta:

“Aggiungendo appena tre linee abbiamo rivelato una donna completamente nuova, il cambio di prospettiva è stato molto profondo. Abbiamo scoperto che quel simbolo racchiudeva in sé il vero significato di cosa vuol dire essere donna oggi.”

Spesso è proprio vero che basta cambiare punto di vista per scoprire una prospettiva completamente diversa, nuova e interessante. Ancora più efficace è farlo con un pizzico di ironia che offre il miglior punto di partenza per una riflessione niente affatto superficiale.

Nasce così la campagna virale #ItWasNeverADress che invita le donne a raccontare la propria storia e la percezione del mondo intorno a sé in quanto donna che vive la sua quotidianità in un determinato ambiente.

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Lewis Hamilton e lo champagne sessista

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Non c’è celebrità senza passi falsi, non c’è vittoria senza una polemica: così Lewis Hamilton, che ha trionfato domenica al Gran Premio di Cina, è stato accusato di aver compiuto un gesto sessista spruzzando di champagne una delle hostess che accompagnano in campioni sul podio durante i festeggiamenti finali.

L’accusa proviene da Rox Hardie dell’associazione Object che si batte contro gli atteggiamenti discriminatori su base sessuale e che ha definito il gesto “irrispettoso” chiedendo le scuse del pilota. I tabloid inglesi hanno subito rinfocolato la polemica e s’è alzato un polverone: il pilota avrebe voluto umiliare la ragazza, imponendole un gesto che agli occhi dei più maliziosi può apparire apertamente evocativo.

Le scuse del pilota, celebrato in pista ma molto chiacchierato fuori dai box, non sono ancora arrivate. Ci si chiede se Hamilton abbia neanche pensato di compiere un’azione che avrebbe scatenato tante ire e una condanna senza appello. Festeggiare stappando lo champagne e bagnando chiunque si trovi nei dintorni è da sempre un gesto associato alle vittorie sportive.

È pur vero che si poteva evitare di bagnare la poveretta al suo fianco, presente solo per ingentilire la scena e fornire un servizio di assistenza che forse non è così necessario. Allora la domanda da porsi forse è un’altra. Non se il pilota abbia voluto rappresentare – pur se inconsciamente – un dominio sessuale sulla donna, cosa su cui è comunque lecito riflettere, ma se non sia di per sé una scelta sessista corredare tutte le manifestazioni sportive di belle fanciulle a scopo unicamente decorativo.